martedì 10 gennaio 2017

Guardare "attraverso"











Nel generale mugugno di insoddisfazione, mi sto allenando a cercare le fiaccole accese, e ce ne sono di veramente belle, credetemi. 
A sorpresa, nascono dove c'è meno sicurezza, e non si aspettano un "posto sicuro" dove stare. Le riconosci perché sono luci che scoppiettano. Non sono le stabili light-led che molti gradirebbero trovare impacchettate e pronte all'uso.
Sto parlando di persone che incontro ogni giorno e che si riconoscono a prima vista. Non partono avvelenate a cercare un altrove migliore (intendiamoci, lo fanno, ma senza acredine o sentimenti di ritorsione), le fiaccole che incrocio qui, in Italia, hanno uno spirito più vicino alla famosa frase kennediana « Non chiedetevi cosa può fare il vostro paese per voi...»


Ecco, di gente così ne conosco e mi piace un sacco
, non ha età e non ha bandiera, sa prendere il giusto valore dalla tua vicinanza e allo stesso modo può arricchirti con la sua. Non sono geni dotati di talenti e fortuna, si tratta di persone che hanno coscienza del proprio tempo e pensano (e parlano) con voce propria. 

Le sirene che proclamano "sfacelo immediato" o "verità assolute" non riescono a irretirle, perché queste persone sfruttano le minuscole occasioni come un vento di traverso per le proprie vele. 
Non chiedono, ma propongono. 

Non si "aspettano" cose fatte per loro, ma "progettano" qualcosa che li smuova nel profondo e coinvolgono altri come loro. 
Sono predisposti al piano B, vanno a cercarsele da soli le tutele.

Vedo l'insofferenza in tante persone che già possiedono un'occupazione fissa, come se il processo di trasformazione e miglioramento del mondo fosse compito di chi sta "sopra" e più in alto. Rassicuranti investiture astratte.
Invece il futuro lo fanno i singoli, "le fiaccole" pronte a mettersi in gioco. Per cambiare bisogna distinguere ciò che conta da ciò che non conta, essere informati a tutto campo (non di solo web), flessibili, svegli e pronti al rischio. Vedo tante luci intorno a me, dove molti vedono solo ombre, e questo mi piace. Non importa se alcune cose saranno perdute, molte ne arriveranno di nuove che impareremo a conoscere. È questa la bellezza del vivere, e per vederla bisogna allenarsi a guardare "attraverso".
Bisogna crederci profondamente, qui come altrove. Perfino dall'orrore del nulla fioriscono progetti.

Come questo.

venerdì 6 gennaio 2017

Il Folletto Billy
















Ho vissuto per dieci anni a ridosso di un parco segreto e meraviglioso. Avevamo scelto di abitare in quel palazzo dalle stanze immense e vecchiotte proprio per goderci il suo sorprendente panorama. Il parco verde era rimasto inaccessibile per molti anni e nel suo cuore impenetrabile, accanto al crocevia più rumoroso della città, era sorta una comunità di Elfi, Gnomi e Sbilf arrivati a Pordenone dalle montagne della Carnia. Billy è uno di loro.

Vive con i suoi fratelli nella cavità di un grande platano centenario che ha un doppiofondo. Però, da quando hanno trasferito un centro sanitario nella villa che sorge davanti alle cancellate, è più difficile incontrarlo.
La prima volta che ho sentito parlare di Billy era il 1999. Un certo professore (che molti conoscono qui in città) si era messo in testa di riservare una parte di quel giardino incantato per gli alunni della scuola elementare e – perdiana – alla fine ci era riuscito! Con alcuni volenterosi aveva rimesso in piedi la vecchia serra e anche ripulito la parte più soleggiata del parco, le aiuole e i prati con le bordure di fiori. Un bel dì aveva inaugurato quel posto incredibile con un cartello intagliato apposta nel legno, intitolato “Il Giardino delle Sorprese”.
Che festa, ragazzi! Ogni giorno, dalle finestre che affacciavano a est, potevo godermi le voci dei bambini che arrivavano dalla scuola e si dividevano in bande: la banda dei pipistrelli e quella delle fate. A volte c’erano scambi divertenti: fatine che preferivano trasformarsi in pipistrelli o pipistrelli che provavano a diventare fatoni. Grandi risate oltrepassavano la vecchia muraglia coperta di edera e io, nascosta alla vista, potevo scoprire le parole d’ordine dell’una e dell’altra banda e altri segreti segretissimi che non vi starò a raccontare.
È proprio così che ho scoperto dell’esistenza di Billy.

Vi dico quello che so: bisogna tendere bene l’orecchio per ascoltare le voci del bosco, ma solo se il vento proviene da est. Quando arriva da ponente si mischia col traffico della rotatoria e non si capisce più niente.
Cento anni fa, Billy viveva in un castello a guardia di una antica strada romana, ed è un “Guriuts”. Non è esattamente un folletto, anche se i bambini lo chiamano così, si tratta invece di uno gnomo troglodita che insieme ai compagni aveva il compito di custodire un tesoro – questo lo so per certo – perché la mia bisnonna viene proprio da là e certe storie in famiglia si tramandano.

Insomma i Guriuts vivevano sulla cima del monte Cjastillr (esistono ancora i resti del fortilizio che controllava il traffico di merci sull’antica Julia Augusta) ma nel 1915, nei primi mesi del conflitto, un regio decreto ha stabilito che si ammodernasse tutta la viabilità. È proprio così che il mio bisnonno è partito da qui per andare a lavorare in Carnia, e lassù ha incontrato la mia bisnonna, che gestiva una locanda sulla strada tra Comeglians e Paularo. La storia dei Guriuts la mia bisnonna la conosceva bene, e anche quella degli sbilf e delle strie. Fatto sta che all’improvviso molti di loro si sono trovati con le case scoperchiate dai picconi e sono scappati via. Così Billy e altri piccoli Guriuts sono arrivati fin qui.

Fatti due conti, nel 1915 Billy poteva essere un adolescente di circa 50/60 anni e ora, a 160, è appena un giovanotto. Non è un tipo molto socievole con gli adulti umani, ma con i bambini sì, sarà per una questione di proporzioni.
Quando ancora abitavo in quel palazzo mi è capitato di sentirlo suonare e anche di intravedere la sua casacca verde tra le foglie della magnolia sopra il lavatoio vecchio, al mattino presto. Quella volta potevo ancora tenere le finestre spalancate di notte, senza ritrovarmi due o tre cavallette giganti appollaiate sulle tende. Al massimo entrava qualche passerotto per beccare le briciole sulla tovaglia. Oppure vedevi Cip e Ciop sfrecciare sul balcone per raggiungere la quercia lì accanto. E il Picchio martellante scandiva le ore.

Se vi capita di trovarvi al distretto sanitario della villa Carinzia provate ad addentrarvi nel parco, dirigetevi alle vasche delle ninfee o verso il roseto e troverete la casa di Billy. Non tentate di incrociarlo: ormai con quel traffico di persone uscirà allo scoperto solo di notte… Ma se vi accompagna un bambino di sette-otto anni avete qualche possibilità in più.
Non sperate di ottenere maggiori informazioni dagli alunni della scuola elementare lì vicino: loro, i segreti li sanno tenere stretti. Il mio figliolo, che ora si è fatto crescere una folta barba da Hipster, non mi ha mai raccontato nulla al riguardo. Per anni ho cercato di farmi rivelare almeno le fattezze reali di Billy, ma niente: è stato come parlare col muro.
Ma dicono che gli gnomi vivono fino a 400 anni, e se avete fortuna forse…
Per vedere le foto della casa di Billy, le mappe, i sentieri, vai quiil-folletto-billy
Seguimi su: www.cafecoworking.it

lunedì 26 settembre 2016

FUORI SEMBRAVA MEGLIO

Un paio di mesi fa ho deciso di fare un esperimento.
Ho rovistato tra le agende dove quotidianamente raccolgo i pensieri, le impressioni, e dove annoto le trascrizioni di dialoghi che ascolto mentre faccio la coda al supermercato, in banca o in quasiasi altro posto. Poi ho raccolto otto brevi narrazioni le ho collegate tra di loro e infine impaginate. 

Il risultato è stato un libretto di centodieci pagine, satiriche e liberatorie (per me) nate in un momento assai difficile della mia vita. Ho pensato che - a quasi cinquantacinque anni - potevo cominciare a fregarmene (un po') di quello che avrebbe pensato "la gente" se avessi deciso di pubblicarlo, a cominciare dal fatto che lo avrei pubblicato self-publishing e stampato on-demand, senza nessun impegno da parte mia di investimenti in denaro che non ho, senza vincoli contrattuali, senza pretese di finta gloria, senza alcuna aspettativa di profitti. 
Beh, è andata. È filato via tutto facilmente, senza l'ausilio di editor, controllo refusi e altri servizi professionali. Tutto self-made, con qualche vantaggio tecnico data la mia professione, ma del resto è un esperimento, un certo margine di errore può entrarci senza scandalo.

La promozione è stata ugualmente divertente: progettare le locandine e i volantini per me anziché per un cliente è stato spassoso e motivante. Soprattutto schiaffarmi in copertina pressata all'interno di uno scatolone aperto. Sì, perché un titolo come quello in alto richiama decisamente una posizione scomoda. 
Mi sono sentita un po' Pantera Rosa a girare per la città affollata di grandi personaggi della narrativa (durante Pordenonelegge) ad attaccare locandine con aria da cospiratrice, ma come dicevo all'inizio chissenefrega: a un certo punto bisogna buttare dietro le spalle quella certa educazione imbacchettata se questa ti impedisce di fare qualsiasi cosa, a partire dalle cose minime, quelle che non recano danno proprio a nessuno e che invece sono sempre lì pronte a censurare ogni parte di te, anche quelle più belle.
E dunque, proprio nel momento in cui mi sentivo rilassata e alleggerita dall'ingombrante peso etico-morale, passo a salutare mia mamma come faccio sempre e scopro che anche lei sta leggendo il mio libretto. Lo vedo infatti in bella mostra sul tavolo del salotto. 
L'ha ordinato da sola, senza dirmi niente, e oggi mi squadra con due occhi tondi da civetta: 

- Hai scritto "Fanc*lo Str*nzo a pagina diciannove!


L'ha detto proprio così, censurato con gli asterischi. Non mi dà nemmeno il tempo di ribattere.


- E anche "C*zzo" in altre due o tre pagine!


Spero che non sia ancora arrivata al capitolo "Coito da sballo" mentre tento di giustificare l'uso dello straniamento nel linguaggio letterario, ma lei ha frequentato il collegio delle Elisabettine e in casa nostra lo sproloquio è vietatissimo da sempre (come in tutte le famiglie normali, dice) anche se normali non lo siamo mai stati, visto che mio padre mi preparava allo studio del Capitale di Marx e del libretto rosso di Mao Tse-tung con verifica finale già all'età di otto anni. - Non c'entra - dice lei.


E' vero, l'oscenità, la blasfemia e il turpiloquio non fanno parte del mio quotidiano. Ma essendo, noi in famiglia, lettori amanti dei classici non posso fare a meno di ricordarle il sommo Dante e la Divina Commedia dove compare una certa "Sozza e scapigliata Taide, puttana... che là si graffia con le unghie merdose" o sempre nell'Inferno, il verso "Ed elli avea del cul fatto trombetta" e anche Pietro Aretino "Fottiamoci, anima mia, fottiamoci presto" e qui mi fermo, eludendo i passi peggiori.


Approfitto del suo temporaneo disorientamento per rassicurarla che non sono ancora sulla via della perdizione, ma che si tratta di racconti (quelli miei) che portano in superficie la sfera dell'inconscio: sai quella roba là, quella che i professori chiamano il flusso di coscienza. O almeno è stato un tentativo. Perché vedi mamma, io quando ascolto, ascolto davvero, guardo le facce, studio i gesti, sembro svagata ma intanto analizzo il non-verbale, e nella testa di ognuno scappa a volte, o spesso un "Fanc*lo Str*nzo" e un C*zzo" e quindi lo trascrivo. Mi guarda sospettosa, ma tace, e prima che io aggiunga qualcos'altro su Tommaso Stigliani e il suo poema "Merdeide" si avvia in cucina e mi chiede tranquillamente: 

- Senti, lo prendi un tè? 

Per chi desidera approfondire la mia esperienza self-publishing legga qui
Per chi vuole leggere un estratto del mio libretto, qui.

lunedì 13 giugno 2016

Il segnale WOW!






















Capita sovente che le persone intorno a noi restino sintonizzate su frequenze che non sono le nostre. 
Non è per cattiveria, è che i segnali radio sono davvero molti. A volte credo di intercettare un segnale WOW* 1420 Mhz stretto e concentrato, poi mi accorgo che era un semplice riflesso causato da un detrito orbitante nello spazio interstellare. Magari era la mia stessa spazzatura cosmica, lanciata con uno shuttle di carta quadrettata all'età di sette anni, che mi piove in testa. 

Quando mi trovo in modalità "base luna chiama terra, rispondete, passo" allora scrivo.
Scrivo a chi ne sa ben più di me. Ai giornalisti, ai filosofi, ai sociologi e psicoanalisti, uso tattiche preventive da guerrilla-marketing per sviluppare un "oggetto della missiva" che riesca a eludere ogni ricerca automatica di spam per scartare l'ultima versione di Avast e schivare il cestino, in modo da farmi almeno leggere, (sono come un batterio davanti all'antibiotico a largo spettro). E quando trovo pubblicata la risposta faccio un salto, e non riesco a crederci, che questi professori si prendano anche l'impegno di rispondermi. 


Ma intanto avviene quel fenomeno di propagazione su più lunghezze d'onda che mi porta altri messaggi alieni (email). Allelujah: c'è qualcuno in ascolto che riconosce il mio segnale!
Un amabilissimo chirurgo oftalmologo di Genova mi istruisce infatti su Sartre e sul bosone di Higgs, mentre un dottore economo di Livorno mi spedisce in allegato il suo canto a colori sinestesico, e mi perderei volentieri nelle sue poetiche tonalità. Ma ecco che subito un ex farmacista (ora vignaiolo stimatissimo) mi conferma che sì, ho ragione: è lo squilibrio, dunque la frustrazione, il motore della vita, e non è un'idea filosofica ma una constatazione termodinamica! 

Perdiana, non manca neppure la testimone di Geova mantovana che legge "Repubblica" forse per reclutare adepti e mi scova, redarguendomi sulla ricchezza (Ecclesiaste 5.10; 7:12) e sulla gratitudine (Colossesi 3 :15) ma per fortuna mi ravvedo, perché l'apposizione di un cardiologo di Firenze ci mette un attimo a riportarmi coi piedi per terra: "Lei sta volando troppo in alto: si ricordi l'Oracolo di Delfi"! 

Insomma che bellezza, è una settimana pienissima di corrispondenza epistolare questa, cosa mi credevo, di lanciare un sasso senza ottenere un adeguato ritorno di onde gravitazionali?
Ti senti sola e abbandonata? Lascia il Prozac, scrivi a un Dotto e fatti pubblicare. Ecco il mondo Outlook in modalità IMAP che arriva a farti compagnia nella tua casella di posta, e senza neppure il costo di un francobollo.
♥ Web is love.

Qui l'articolo.


*Il segnale Wow! è un segnale radio a banda stretta durato 72 secondi, rilevato dall'astronomo Jerry R. Ehman il 15 agosto 1977 con il radiotelescopio Big Ear dell'Università statale dell'Ohio. Le caratteristiche del segnale lasciavano intendere una provenienza esterna alla Terra e al Sistema Solare. Il segnale non è mai più stato rilevato.

giovedì 26 maggio 2016

5 MESI DA PAURA!

Sono passati cinque mesi dal mio ultimo post! 


Se mi giro indietro a guardarli neppure ci credo! Eppure sono accadute molte cose, sconvolgenti direi. Era iniziato il 2016 così bene... nonostante il detto locale "anno bisesto, anno funesto" tutto stava procedendo con le migliori prospettive. Questo a gennaio.

Poi è arrivato febbraio
e, come capita periodicamente nella vita di ognuno, si sono presentate nuove avvisaglie di maretta: malattie in ambito familiare, depressioni da sostenere psicologicamente, brutte situazioni lavorative con tanto di cause legali e, per finire, addirittura un ricovero ospedaliero d'urgenza! A dirlo sembra niente, ma cinque mesi così ti sconquassano eccome. Soprattutto se le cause che innescano i problemi sono esterne e non sono derivanti dai tuoi errori personali o dalle tue responsabilità.
Cambia la personalità di chi è coinvolto in prima persona, ma anche la tua (da consolatore a capro espiatorio) quando devi subire situazioni la cui gravità supera ogni possibilità di reazione.
Oh sì, sono passaggi tremendi.

Poi si cerca di fare una quadra
, obiettivamente si analizzano le motivazioni, i perché e i "per come". Se è il caso di ricostruire, bene: si recuperano i cocci e si puntella tutto. Se il danno è troppo grave si devono per forza affrontare cambiamenti radicali, ma necessari. Non è facile. No no no.

Il post di oggi è volutamente ermetico
(non è che si possa mettere in piazza tutto), questo spiega però la mia forzata assenza dal blog "Statecomodi"... Ora questo adorabile Blogghino diventerà la landing-page di un portale più importante, che ho appena creato e messo in rete.
Anch'esso è frutto del recupero di un grosso progetto, arenatosi per varie cause, ma ancora buono. Si tratta di un progetto che ho curato in solitaria, senza l'ausilio di alcuno, e che metto a disposizione dei miei concittadini. È un progetto aperto e gratuito, tutti possono accedervi e usufruire dei servizi.
È una cosa bella e giusta, e giunge alla fine di un percorso di maturazione. Dire "alla fine" non è esatto, perché mi auguro che sia un inizio. Un nuovo inizio, bello e produttivo, di crescita per me e per chi vorrà accompagnarmi nell'impresa.

Questo è il mio nuovo portale, venite a trovarmi qui: CAFECOWORKING per leggere nuovi e interessanti articoli e per iscrivervi numerosi alla Mailing-List.
Ciao a tutti!
Grazie per avermi seguito fin qui, con amore, Laura.

martedì 22 dicembre 2015

CANTO DI NATALE



















Guardo dalla finestra in questa domenica di fine luglio, 
il tempo è finalmente incerto dopo la grande afa e il quartiere è ancora silenzioso. Si sente solo il passaggio di qualche rara auto, mentre i pesanti tendaggi della cucina gonfiano, schiaffeggiando a
tratti disordinatamente, sulle finestre e sul calendario, producendo un rumore secco. Un pensiero fugge e senza peso vola via.
Osservo di nuovo il paesaggio fosco, ma immagino un mondo di colori uniti, eppure distinti, formare un fascio splendente che illumini le coscienze. Immagino giovani menti adulte, aperte a tal punto che non vi siano più steccati a definire i loro giardini, menti che sappiano scegliere cosa ospitare o non ospitare all’interno, perché non ci vuole del coraggio per far questo. E orecchie che possano ascoltare, laddove ascoltare non venga mai più inteso come obbedire. Immagino un mondo dove la verità è ricerca, dove l’espressione di ognuno non cerca l’applauso del mondo e non teme le condanne delle gerarchie. 


E proprio mentre penso questo, allo stato assoggettato che plasma e modella, agli stemmi e bandiere e ideologie che uniscono e dividono, ecco che nell’aria ottusa del mattino due giovani voci gravitanti trapassano festose le fessure delle persiane.
«La mia ragazza mi ha prosciugato!»
«Prosciugato?»
«Si, avevo cinque euro e adesso sono a secco!»

Altri brevi discorsi arrivano smorzati dal rombo di un motore di passaggio, e si concludono con la tipica inflessione locale: «Ih... che mona!» 

Sorrido mentalmente al gergo un po’ spaccone dell’età pensando "sono i figli di Luisa" mentre guardo giù, cercandoli con gli occhi.
Due giovani ragazzi, sorridenti e dinoccolati, procedono speditamente trascinando le bici. Ma non sono i figli di Luisa, perché la pelle di entrambi è molto scura. Uno ha folti capelli crespi, l’altro possiede la chioma liscia e lucida di chi arriva dal medioriente.
Resto immobile, fissa e stupita dall’inganno uditivo: riconosco nella loro estraneità l’accento dialettale della mia infanzia, proprio quello e non un altro. L’istinto cerca veloce qualcosa che mi riporti la certezza appena sfuggita e riaffiora dal nulla un ricordo, profondo, che riconosce lo stesso disorientamento. 


Ho all’incirca dieci anni e dal cortile di casa - il cancello perennemente aperto - compare la figura di un marocchino smunto. Veste una tunica, con pantaloni che un tempo erano bianchi, e affaccia il suo volto segnato sulla porta aperta della cucina. Lo fisso, perché mi colpisce il contrasto tra i capelli quasi bianchi e la pelle nera: era forse la prima volta che vedevo da vicino un nordafricano. Freno l’istinto di ritrarmi o girarmi perché, mi dico, non sono il retaggio di una educazione da uomo nero, si sono ben guardati i miei dal fornirmelo, tuttavia egli rappresenta all’istante il diverso, cerco ma non trovo un comportamento appropriato da tenere. Mi sembra la cosa più sensata quella di chiamare mia mamma, so già che alzerà gli occhi sbuffando tra sé alla vista dell’uomo, con un misto di smarrimento. 
Dirà che non ci sono soldi, e lui insisterà nello sciorinare della merce di scarso valore, pochi fazzoletti, calze, filo di cotone...
E infatti così fa, ma senza dire nulla perché non conosce una parola, limitandosi a muovere le mani e gli occhi, e nel far questo abbassa lentamente la spalla carica di tappeti simil-persiani, lasciandoli scivolare fino a terra, quasi barcollando.
Non lo perdo di vista, notando la prostrazione in quella rispettabile dignità, che anche mamma percepisce. Dalla cucina infatti sfugge un fragrante aroma di pollo arrosto e patate, e questa persona sembra non mangiare da giorni, tuttavia mantiene il suo decoro e continua la dimostrazione, senza insistenza, con uno sguardo limpido.
Capisco che mamma sta pensando la stessa cosa e così azzarda una mossa che papà, trovandoci sole, disapproverebbe in pieno: si fa da parte e con una mano gli indica di entrare a sedere. 


Lui sembra dapprima sorpreso, poi con incertezza si accomoda a occhi bassi, tiene i gomiti elegantemente fuori dal tavolo, dispiega un tovagliolo e lo ripone sulle ginocchia mentre mamma lestamente sostituisce il vino con una bibita. Lui sorride piano congiungendo le mani e abbassando il viso per ringraziamento. Solo allora mamma ci dice gentilmente - ma fermamente - di sedere a tavola, vedendo me e mia sorella un poco perplesse. E infatti, il tarlo genetico del ripudio della diversità ha radici sempre ben salde in ogni essere vivente. Con un misto di senso dell’avventura, senso di compassione e di pericolo insieme, mi appresto al desco, ma l’anziano straniero smentisce ogni losca aspettativa: ha la grazia di un Cristo all’ultima cena.
Consuma e termina il suo pasto senza il minimo rumore sospetto, poi si alza e ricompone la sedia, e quando la mamma si avvicina per chiedergli a gesti se ne gradisce ancora, l’anziano le prende pudicamente le mani, raccogliendole tra le sue e - chinandosi più volte - ne sfiora il dorso solo a distanza con le labbra, prima di raccogliere la sua mercanzia e avviarsi all'esterno senza nulla vendere, con un inaspettato e profondo «Grasie mama, grasie mama.»
Ricordo in quel momento di aver ripassato mentalmente tutte le parabole possibili riguardanti il prossimo tuo come te stesso, e nonostante le profonde lacune in catechesi dovute all’ideologia filo-marxista di mio padre, che pure considerava Cristo nel suo agire il migliore tra gli uomini, mi sono sentita testimone di un Vangelo internazionale, dove gli umani possono scavalcare la paura e diventare creature straordinarie, capaci di comunicare senza parole semplicemente attraverso la più umile materializzazione del bene. 


Davanti alla finestra della mia cucina rievoco quel momento, quando mia madre, con l’essenzialità spartana necessaria al superamento di una sorte spesso per lei avversa, disse pensierosa che sicuramente ora lo avremmo rivisto ogni mese.
Non lo rivedemmo più, invece, né mio padre seppe mai della cosa. Ancora oggi me lo porto addosso, come se io fossi un libro sul quale lo straniero e mia madre avessero tracciato in caratteri arabi ‘fratellanza’, caratteri che benché fragili, benché in un’altra lingua, per un momento sono riuscita a leggere.
Ora che il ricordo ha guadagnato una collocazione e lo sguardo ha seguito i due ragazzi fino in fondo alla strada, ripenso alla storia della mia famiglia e alla mia gente.
Ma quale gente?
I veneti, i carnici o quelli di ceppo francese? E perché non scoprire da che gente veniva quella nonna che non aveva i genitori: dietro a quel nome così apparentemente slavo che le regalarono, chi ci sarà mai stato in realtà? Fossero anche turchi, tanti ne son passati! La querelle sembra infinita, mi siedo e per un istante tutto mi appare semplice. Crediamo che la terra sia nostra. Crediamo che la lingua sia nostra, ma non lo é. 
«Sucabaruca, la caraffa la sbrova! Ciapa, mettela sul balcon». Diceva a volte mia nonna, convinta di parlare il suo dialetto. Ma, inconsapevolmente, con una sola frase si portava in casa parole di ebraico, arabo, franco, celtico e longobardo. Un certo istante si apre illudendomi di accedere alla conoscenza universale, la sensazione è transitoria e in un baleno il cerchio si chiude. Eppure in quella frazione di tempo la visione è matematica.
L’appartenenza è solo un’illusione. Dietro le usanze ognuno mangia e dorme, ama e odia allo stesso modo, nel perpetuo andare e venire, da lontano e da vicino. Un riciclo cosmico alla continua ricerca di qualcosa di migliore, dai monti alle valli, dai deserti alle steppe, malgrado le sofferenze, le tragedie, l’odio e le guerre. Noi tutti, fatti della stessa materia revocabile che ci unisce e non ci distingue, proseguiamo a sancire il nostro spazio privato, tra latitudini e longitudini di questo piccolo mondo, nell’universo imparziale che non ha nord ne’ sud, ne’ est, ne’ ovest.

lunedì 9 novembre 2015

AGNOSTICA STAND BY


























Stavo per inviare un'email a tema religioso al filosofo conduttore di una nota rubrica di rotocalco, quando - nei titoli dell'uscita di oggi - mi scopro già retrocessa al girone degli ignavi nell'inferno Dantesco prima ancora di spedire la lettera. L'articolo in questione classifica gli agnostici come svogliati individui, incapaci di prendere decisioni. Cavoli! Ci rimango malissimo, proprio non immaginavo. Ora mi toccherà riconsiderare daccapo tutta la mia posizione di "agnostica", quindi non prendere coraggiose posizioni ne' impegnarmi in ragionamenti, perché è faticoso. (Non ero proprio allineata alla categoria).

A dire il vero ho amiche affettuose che frequentano Medjugorje
pregando con devozione per tutti, me compresa, con la speranza di illuminarmi. Ci amiamo e rispettiamo moltissimo, dico loro che probabilmente sono più avanti di me, ma di aver pazienza. 

Altre amiche sembrano libere da ogni verità di fede ma sono a loro volta fervide seguaci di altre correnti di pensiero - laiche, ma pur sempre radicali. Si diventa quello che si mangia (dicono) infatti l'educazione che ho ricevuto in famiglia potrebbe essere classificata come l'abiura dei dogmi, in generale. Nel mio astratto ragionare vedo la devozione fare acqua, quando ripone aspettative nella giustizia divina. Si capisce che l'inconoscibile metta spavento ma non mi convincono né superstizioni né esorcismi o santificazioni. 
A quanto sembra l'entropia che ci attraversa non è affatto infallibile, non ottiene risultati a colpo sicuro e meno che mai si preoccupa delle nostre paure, scorre finché trova un equilibrio con gli elementi che ha a disposizione e se fallisce si rigenera sui pezzi di quei fallimenti, alla ricerca del migliore tra i risultati possibili. Naturalmente questa ricerca di equilibrio non ci piace: può sembrare violenta, ingiusta, cattiva e non accettiamo di essere noi lo scarto. Ecco perché le religioni non mi soddisfano: nascono con la necessità di delegare le soluzioni "a qualcuno che non siamo noi", ma restano - purtroppo - umane.
Si capisce che "da quaggiù" la visione sia talmente limitata da far paura e porti a desiderare un aiuto divino, ma - ahimè - non trovo rassicurazioni negli officianti umani che intercedono per noi. Cosa potrebbero fare di più, se non trarre profitto dai timori e dalle incertezze dell'umanità: non siamo tutti materia dello stesso brodo cosmico? 


La natura panteistica mi appartiene di più, le varie specie si impongono tra loro senza alcun giudicante o giudicato. Solo l'essere pensante invoca divinità superiori - ognuna a propria immagine e somiglianza - e rivendica per se' una facoltà di giudizio personalizzata (e anche di perdono, perché libera tutti e allevia le coscienze). In nome di questa licenza si condanna, si conquista, si sottomette, si ammazza, si squarta e si attendono eterne ricompense. 
Leggo continuamente approfondimenti sulle credenze e sulle religioni dei popoli per cercare di avvicinarmi ai sentimenti del mio prossimo e ne ho grandissimo rispetto: sto all'erta come un segugio in attesa di una rivelazione che mi faccia dire "Ecco, avevano ragione loro!" 
Purtroppo, nelle diversità religiose finora considerate, continua a sorprendermi solo la visione così univoca e materiale del genere umano. Comunque attendo sviluppi.

giovedì 10 settembre 2015

LEZIONI DI ETICHETTA




























È bello ricevere lezioni di etichetta a 53 anni.
Mi sono recata all'Ente formativo "X" per recuperare del materiale personale che attendevo da qualche mese e per altre formalità. Gli uffici erano rimasti chiusi per due giorni, e ingenuamente, credendo di trovarli aperti non ho telefonato prima. Invece, perbacco, era in corso una riunione generale e anche gli sportelli erano inattivi.
Essendoci arrivata in bicicletta, dall'altro Comune, forse il mio aspetto non era proprio al top della presenza, magari ero un po' incartata dall'aria e con una capigliatura bidirezionale rispetto il punto di fuga. Forse mi è sfuggita una ruga di disappunto sulla faccia per il fatto di dover tornare. Forse non ho applicato sufficientemente la teoria dei neuroni specchio prima di chiedere a un responsabile incrociato in corridoio se era possibile ottenere il mio materiale senza ritornare di nuovo. Fatto sta che mi sento rispondere: «Provi con la dovuta delicatezza a bussare a quella porta. E magari cerchi di fare un bel sorriso, prima».
Dopo un breve sfasamento di connessioni intercorticali pietrificate ho seguito il consiglio, ma non trovando nessun incaricato all'interno dell'ufficio ho ritenuto opportuno lasciare il campo. Non senza aver ponderato l'urgente necessità di prendere un appuntamento col primo chirurgo estetico per una seduta multipla di botulino che distenda rughe glabellari e rialzi il bordo del vermiglio in un sorriso stile Jocker da sfoderare nelle giornate down, seguita a ruota da un meta-programma di PNL che risvegli in me la tecnica fondamentale del Pacing Rapport. Forse anche qualche aggiornamento in Keep Calm and Bella Raga non mi farebbe male.

Non si finisce mai di imparare.

venerdì 4 settembre 2015

NON C'É NIENTE DA RIDERE



























Preparatevi, sto per fare affermazioni in netta controtendenza.

E' la natura, non l'uomo, a decidere i giochi. Se hai ali forti, volare non ti fa paura.

Siamo catapultati sul pianeta terra non si sa bene perché, e senza un regolare libretto di istruzioni.
In base a dove siamo finiti il nostro futuro si presenterà in bianco/nero o in technicolor. Cosa sia meglio è tutto da stabilire. Fra le due cose la componente "fortuna" giocherà un ruolo importante. Cosa sia questa roba non si sa. In alcune regioni del mondo è considerata "il fato", in altre "la buona sorte", per molti è solo una "illusione per pigri indolenti".

Dopo una quantità d'anni spesa a ragionarci sopra, con letture, dissertazioni e confronti di opinioni, credo che questa incostante e volubile fatina (che definirei stronzetta) esista veramente. Chissà se è un mero prodotto delle sinapsi umane quello in grado di produrre le azioni propositive quanto le irreali allucinazioni... (davvero irreali poi?) oppure se è il frutto di un progetto universale. Averla o non averla è un'incognita - dicasi anche complicazione, intralcio, grana, grattacapo, casino - col quale dobbiamo scontrarci ogni santo giorno e fa la differenza. Ora va di moda pensare che il caso non esiste e la fortuna siamo noi:  siamo in pieno 'Illuminismo 4.0' e chi non si realizza è un inetto o almeno incapace di percepire i segnali quantici dell'universo.
Facciamo un esempio.
Avete presente il mal di schiena? Inizialmente si è portati ad assecondare il dolore prendendo una postura sbagliata, perché magari il fastidio si sente meno. Invece è peggio perché diventa un'abitudine. Giorno dopo giorno i muscoli si inflaccidiscono e tutto il corpo prende una brutta piega. Siamo portati a fare questo perché intervenire sugli elementi di disturbo per correggere il malanno ci costa tempo, lavoro, fatica e anche ulteriore dolore, ma finché non attiveremo questo daffare il problema non si risolverà e non avremo pace.
Tutta qui la formula magica? Magari.
Questo è quello che predica la maggior parte dei guru, santoni & C. Si chiama pensiero positivo, volontà, determinazione, assertività o come volete voi. (Guru, Personal Trainer & Co. sono la manifestazione vivente del successo della terapia, perché sono riusciti ad ottenere profitti personali lavorando molto... sull'induzione alla non-resistenza. La vostra. Nessuno fa niente per niente). Quel che non si dice, che tutti negano ma che ognuno dei comuni mortali sospetta in cuor suo è che una componente fondamentale della riuscita sia determinata dalla fortuna. Dite di no?

Energia.
La fortuna è energia. Il movimento è energia. Il desiderio è energia. La fame è energia. Nessuno di questi fenomeni è determinato dalla volontà.
Tutto il mondo animale e vegetale è fatto di sopraffazione e si mangia l'un l'altro. In alto e in basso della catena alimentare. Predatori e parassiti. Il mondo è un'equazione differenziale, non il dolce stil novo. La fiaba di Disney è un prodotto della mente umana. La Fisica Quantistica no.
La legge dell'attrazione dice che c'è posto per tutti, che i sensi di colpa sono superflui perché non ruberai mai nulla al tuo vicino. Porta un esempio clamoroso, quello della malattia: non potrai far migliorare un ammalato proponendoti di regalargli un po' della tua salute. Ma sta proprio qui la differenza. E così che funziona nei vincenti: non si chiedono se l'azione che stanno per intraprendere sarà un'occasione mancata per chi gli sta accanto. Questo è il paradossale controsenso di quanto affermato sopra.
La legge di natura ha delle regole basate sull'istinto di sopravvivenza che sono giustamente definite "sano egoismo". Il sano egoismo porta il leone a mangiare la preda. O la zanzara a succhiarci il sangue. NON SIAMO tutti uguali. La natura ci offre diversi modi per sopravvivere, ma non le stesse opportunità, perché l'egualitarismo (alla faccia di mio nonno Marxista) porterebbe la fine del nostro mondo, e "qualcosa" ha escluso volutamente questo tipo di programmazione. Nemmeno le cellule del nostro corpo possono diventare altro da ciò per cui sono state programmate, o diverrebbero cellule cancerogene.
Pensavamo bastasse il pensiero positivo? Ahi!

Alcuni dicono che la fortuna e l'amore arrivano quando smetti di inseguirle. Ma potrebbe essere peggio. La signorina Maria sbava da anni dietro al giovanotto Piero che manco la vede. Quando, rassegnata, decide di accettare la corte di Gino e di sposarlo, Piero si accorge finalmente di Maria rompendo i piani anche a Gino. È fortuna? No, è sfiga. C'è un momento, un luogo, un tempo per ogni cosa. Accanirsi perché accada è improduttivo, ma se deve, il momento giusto arriva quando lo puoi apprezzare meglio. Questa è fortuna.

venerdì 14 agosto 2015

L'ORA DI DIO


























Mentre stiamo gustando la nostra pizza al Lido, Giorgio si ferma, alza gli occhi e mi fa: «Ma ti chiedi mai se tutto questo ha un senso?» 
Ha percepito più distintamente il chiacchiericcio intorno a noi, la folla seduta ai tavoli, intenta a discutere di mille argomenti diversi mentre aspetta le pizze sgranocchiando grissini.
«Sì, mi rendo conto di questo, almeno 23 ore su 24».

Ti sei mai alzato nel cuore della notte - gli faccio - prova a svegliarti alle quattro e mezza e spalanca la finestra. Il cielo ha striature cobalto che graffiano il nero, le stelle a quell'ora spiccano come diamanti. Tutto è immerso nel più assoluto silenzio. Io la chiamo "l'ora di Dio". E' l'ora delle domande, e qualche volta anche delle risposte.
Sentirai, un quarto d'ora dopo, gli uccelli cantare chiassosamente, tutti insieme, come se fossero lampadine dell'albero di Natale e qualcuno li avesse accesi, collegandoli alla presa della corrente. 


Ma l'ora di Dio finisce lì, e subito il mondo timbra il cartellino del giorno che viene.

RACCOLTA DIFFERENZIATA


























Ogni tanto mi vengono delle pensate, non so dire se lampanti o stupidissime, comunque mi vengono. 

Stamattina, mentre scendevo le scale ingombra di sacchi di carta, vetro, plastica, lattine mi ripetevo:

Se carta e plastica sono materiali che io pago insieme al prodotto che acquisto (se poi la confezione è in carta goffrata su entrambi i lati, in pura cellulosa ECF, Bianco o Avorio, Vergata, Acquarello, Rustik, Scrapbooking, spessa 300gsm... sono già 20 euro/mq), e una volta scartato il prodotto io uso il mio tempo per separare carta, plastica, metallo e conferire i vari materiali nei luoghi appositi, perché dovrei pagare l'azienda comunale che se li porterà via per rivenderli alle imprese che poi li rimetteranno sul mercato?

Moltiplichiamo il lavoro di separazione dei materiali per cinquantamila cittadini, (anche solo dieci minuti al giorno: provate a suddividere certi eco-imballi a doppio strato dai biscotti o della pasta, a sradicare i tappi di plastica incollati ai tetrapack di succhi, latte, sughi di pomodoro, pressare le bottiglie vuote, appiattire scatole e cartoni, trasferire olii di cottura in altri recipienti e svuotarli nelle campane apposite, togliere finestrelle plasticate dalle buste di carta...) sono 750.000 minuti che fanno 12.500 ore di "lavoro" totali, 5 ore al mese a persona, cioè 60 ore all'anno. Questo tempo quotidiano "risparmiato" dal comune che raccoglie il materiale viene "guadagnato" dallo stesso nella vendita della plastica, carta ecc. 
D'accordo, a causa dei cittadini distratti e poco volenterosi c'è sempre del lavoro supplementare di rifinitura che va a carico del comune, i cittadini virtuosi però si trovano a pagare doppio: in ore proprie impiegate nel conferimento e in tasse di smaltimento e non sono molto soddisfatti. 
Proporrei una soluzione diversa e più motivante. 

Un metodo di raccolta "controllato" per carta, plastica e metalli, dove il cittadino virtuoso possa conferire la propria differenziata già separata alla perfezione. Al cittadino virtuoso andrebbero azzerate le tasse riguardanti i rifiuti solidi industrializzabili, oppure andrebbe gratificato con un compenso per quel materiale riutilizzabile che ha già precedentemente pagato con l'acquisto (e gli appartiene). Come succedeva anni fa, quando l'omino passava col carretto e pagava alle famiglie il ferro e il rame inutilizzato un tanto al chilo


Chissà se questa mia idea è una proposta balzana oppure ha un fondo di serietà?

giovedì 6 agosto 2015

L'ULTIMO NATO

Un Blog, due Blog, tre Blog, quattro, cinque...

Sto trascurando un po' troppo questo mio salotto pubblico, me ne rendo conto. Succede quando si vuole strafare... Ma amo tutti e cinque questi miei "figli" così diversi e non mi sento pronta ad abbandonarne nessuno.

L'ultimo nato è un Wordpress. 
E' nato da un progetto ben più grande e avrebbe dovuto essere un'altra cosa, ma si sa, le cose a volte si trasformano, vanno dove vogliono andare, e noi semplicemente le seguiamo.

Un progetto che nasce è sempre bellissimo, ma non per forza è vincente, spesso è al di sopra delle proprie possibilità. Poi goffamente si modifica, adatta le sue forme slanciate a quella stortura difettata che si pensava fosse un handicap e magari acquista una personalità nuova e interessante.
Il mio ultimo blog è nato proprio dai difetti e dai bastoni che la vita ha messo quotidianamente tra le mie ruote.  
Non posso fare a meno di amarlo, rappresenta il reale, la fatica, il tallone di Achille.

Con nuovi intenti potrebbe dare sorprese inaspettate. E crescere. Dovrò lavorare molto e ancora di più, questo lo so, ma non mi spaventa. 

Eccolo qui: www.cafecoworking.it

LASCIA ANDARE...



























L'ILLUSIONE DEL RECUPERO. 

Questo profondo attaccamento al recupero io non lo comprendo. 
Un abito vecchio che diventa camicia. 
Un telone di plastica che diventa borsa. 
Una bottiglia che diventa paralume. 

Secondo me anche le cose hanno il loro ciclo, come gli esseri viventi. Non è che quando sei vecchio ti ricompongono in un modo diverso e diventi un canguro. 
Muori - semplicemente muori - ti decomponi e ti dissolvi. Dopo centinaia d'anni - forse migliaia - sarai qualcosa d'altro. Una foglia. Un insetto. Un sasso. 
Anche per gli oggetti io la penso così. E' finito il tuo ciclo, ti sono grato di avermi accompagnato fin qui e ora ti lascio andare. Ti dissolverai e tornerai ad essere chimica. Magari dopo una bella raccolta differenziata. 

Le cose nuove profumano e sono gioiose come un neonato in famiglia. Portano sorprese e un lungo cammino da fare insieme. Le cose nuove hanno processi lunghi alle spalle e lavoro per molti. L'universo non rimette più in sesto ciò che è vecchio, non ha sentimenti di pietas. Ogni passaggio regolato dalla Termodinamica corre attraverso una esponenziale entropia per trasformarsi in qualcosa di assolutamente diverso.
Recuperare ciò che ha già avuto la sua storia è solo un lifting mal riuscito. Lasciamo andare... non lo sentite il vento leggero e struggente della partenza verso quello che non si conosce ancora?
Ha il suono soave di un canto. Lasciamolo andare...

martedì 16 giugno 2015

L'HO'OPONOPONO CHE È IN ME



























«Sei stressato per il troppo lavoro? Stai facendo del tuo meglio, ma ti accorgi che successo e gratificazioni sono difficili da ottenere? Non sei consapevole dell'#Ho'oponopono che è in te!»

Non resisto a questo genere di sinossi in quarta di copertina, mi scatta subito un atteggiamento da guerriero di Cartagine della fanteria pesante. Armata di matita comincio una fitta annotazione di punti interrogativi per sabotare tutta la costruzione e reagire, replicare, rimbeccare, obiettare, contraddire, confutare. Talvolta mi trovo d'accordo e lo annoto con un punto esclamativo cerchiato e sottolineato. Se proprio voglio esaltare il trasporto del momento siglo anche un cuore. La lettura procede come una crociata.

Questo genere di scritti possono risultare affascinanti,
ma il più delle volte sono geniali appropriazioni di altre culture. Qualcuno ci annusa l'affare e ci costruisce sopra un impero. Bravi, certo. E non puoi neppure tentare di risvegliare le coscienze, perché su questi temi si gioca il libero arbitrio. Peccato, perché molti schemi sono effettivamente efficaci - vedi la forza del placebo, per esempio - dispiace che poi i metodi originali vengano manipolati, arricchiti, contaminati dal solito fattore denaro.
Per contribuire allegramente al giro economico ho voluto scrivere all'autore e in risposta (come no?) ho ricevuto numerosi sconti per le iscrizioni al prossimo aggiornamento online. Impara l'arte e lasciala andare. E' il marketing gente.


«Caro Joe Vitale,
(il tuo cognome è sicuramente italiano, quindi ti scrivo nella mia lingua).
Tempo fa ho visto il tuo libro in uno scaffale come una provocazione. Ma era scontato del 15% e siccome mi piacciono le sfide mentali l'ho comprato. Avevo già acquistato anche altri libri del genere (molto simili) di Wayne W. Dyer, Ester & Jerry Hicks, Don Miguel Ruiz.

Insomma, ho letto con molta calma ZERO LIMITS, e oggi l'ho finito.
Ti dico alcune impressioni che ho avuto mentre lo leggevo:

1) "
Ho'oponopono" è un suono che ha una pronuncia molto buffa, scusami, ma è difficile pronunciarlo rimanendo concentrati...
2) In questo metodo hawaiano sono descritte cose condivisibili, ma il fatto importante è che "
Ho'oponopono" è frutto di una mente umana. Domani potrei alzarmi e istituire anche io una nuova corrente mentale (siamo tutti particelle divine).
3) "
Pulire, pulire e ripulire dai ricordi: essi bloccano l'energia". Siamo d'accordo Joe, molti ricordi negativi bloccano la vita, ma cos'è la vita senza ricordi? Niente, credo. Senza ricordi non resta traccia di nulla, nemmeno dei tuoi libri.
4) "
Il VUOTO è il fondamento dell'Identità del Sé". Ma se lo scopo della vita è tornare al "vuoto" per accogliere "l'infinito" a cosa servono le esperienze?
5) "
Ognuno ha un ruolo assegnato nell'universo, se la vostra mente lo giudica male andrete in cerca di droghe e dipendenze per nasconderlo. Agite in base al vostro dono: i netturbini e i minatori amano il loro lavoro". (I minatori l'ho aggiunto io). Ma ti chiedo: se ognuno di noi accumula preferenze che sono in contrasto con la volontà divina o cosmica, che scopo hanno i desideri? Non si potevano creare esseri-automi già felici di occupare lo spazio a loro destinato?
6) Sono sicuramente d'accordo sul fatto che non possiamo avere il controllo sulla nostra vita, ma si possa almeno scegliere responsabilmente. Quindi sì, a volte il segreto è arrendersi.
7) "
Fragole e mirtilli, marmellate e gelatine svuotano dai ricordi." Questa cosa è bellissima! Chi te l'ha suggerita: una divinità?
8) Penso che non mi iscriverò ai metodi chiave di guarigione che promuovi alla fine del libro, anche se forse potrei cogliere qualche ispirazione per una nuova attività.  


Bene, ho riempito le pagine del tuo libro di annotazioni a matita. Probabilmente "Ho'oponopono" non ha acquistato un nuovo discepolo, ma ho ritrovato pensieri che si possono condividere, e soprattutto mi hai fatto sorridere (e anche ridere molto) e questo è un bene. 
Joe Vitale, sei sicuramente un grande professionista del marketing e un buon venditore. Ho acquistato il tuo libro consapevole che questa azione avrebbe in piccola parte contribuito al tuo benessere finanziario (fare del bene porta bene...) così come questa mail ti permetterà di ottenere un po' di promozione in più. In cambio ti chiedo un bel rituale di purificazione verso di me: lo so, sono una scettica-agnostica incallita, ma chissà, se le cose dovessero andare improvvisamente bene almeno saprò chi ringraziare.
Anche io ti auguro pace oltre ogni comprensione».
E che questo si compia.

mercoledì 15 aprile 2015

LEI, FACCIA DA VECCHIA


























In risposta a una lettrice che scrive a proposito dello smarrimento dell'ultima generazione, quella costretta ad affrontare l'ingresso alla vecchiaia in una società che celebra il culto della giovinezza, #Umberto Galimberti risponde tra le altre cose citando #Hillman:
"La faccia del vecchio è un bene per il gruppo. E per il bene della società bisognerebbe proibire la chirurgia estetica e considerare il lifting un crimine contro l'umanità".

Mah. Penso io. «Più apatheia per i vecchi?»
In famiglia non ho ricevuto un'educazione tendente al lezioso (ho già detto che a nove anni mi facevano fare riassunti sui testi di Karl Marx...) eppure quando guardavo mia nonna da vicino - una nonna adorata - notavo subito le palpebre cadenti sopra i meravigliosi occhi bigi e mi chiedevo con vera apprensione: «Oddio, non verranno anche a me?»

Penso che l'attrazione per il bello sia connaturata alla nostra specie, un propulsore all'azione vitale. Stacchiamo istintivamente la mela dal ramo, difficilmente raccogliamo quella avvizzita tra l'erba. (Ovviamente nella pura sopravvivenza si raccoglie anche quella).
Di per sé la bellezza esplica la funzione di attivare "desiderio" è quindi necessaria principalmente allo scopo riproduttivo e una volta concluso il processo, bam, se ne va. Però la tensione verso il bello rimane potente, immaginifica, ridondante di sensazioni positive eppure tradita dalla vecchiaia: la gioia è perduta proprio nell'età della sua piena consapevolezza. (Chi non ha esclamato rivedendosi nelle vecchie foto: "Guarda che meraviglia... e credevo di essere brutta!")
Perché la bellezza è puro piacere. Se no, per quale scopo avrebbero inventato il profumo? Non bastava il sapone?

La bellezza è anche in un sorriso. Non si rimprovera una settantenne per essersi rifatta gli incisivi a imitazione di Julia Roberts, ma di aver spianato le rughe sì. Perché? «Perché la masticazione è fondamentale», diranno in molti. Eppure io sono convinta che anche il boom di apparecchi ortodontici c'entri relativamente con la funzionalità, e che la motivazione principale rimanga soprattutto l'obiettivo estetico. Credo che questo desiderio non si debba demonizzare troppo, anche questa è una forma di comunicazione. E' vero che è rassicurante avere in casa la nonna dei biscotti Doria, ma è anche vero che "vedersi bene" facilita le relazioni, la disponibilità verso il prossimo e il coraggio delle azioni. Certi talenti naturali non ne hanno bisogno, (magari risplendono già per intelligenza, bravura o saggezza) ma, diversamente da Hillman c'è il resto del mondo che arranca per andare avanti, gente comune cui basta "vedersi bene" per dare un senso al giorno che verrà.
La nonnina dei biscotti Doria questo problema estetico probabilmente non se lo poneva proprio: nel secolo scorso era già un traguardo oltrepassare i settanta. Ma era forse meglio?

IO CREDEVO, IO PENSAVO.

C'è un fattore comune che mi infastidisce un sacco, e ribadisco mi infastidisce un sacco. 
Quello delle scelte fatte così. 

"Ma dai, ci pensiamo dopo". 
"Vedrai che poi cambierà". 
"Intanto cominciamo e poi si vedrà". 

Decisioni più che legittime - intendiamoci - a patto che non si concludano con l'inevitabile  «Ah, ma io credevo... io pensavo». 
Odio a morte questa frase. E' la giustificazione dei profittatori. Quelli che non si curano delle conseguenze e se possibile le scaricano sul primo che passa. Categoria di voltagabbana e portaguai. 


"Ma dai, ci pensiamo dopo" comporta il fatto che, se va male, te la metti in saccoccia e tiri dritto dicendo: «Ok, avrei dovuto pensarci prima, è solo colpa mia». Non cadi dal pero con lo sguardo smarrito in cerca di qualcuno che ti risolva il problema. 

C'è un bivio ad ogni passo nella vita e la scelta è tua. Prenditi la responsabilità delle tue azioni: sulle tue scelte non puoi più recriminare.

domenica 1 febbraio 2015

IL SESTO SENSO





























 Francia, un bel po' di anni fa. 
Zona sud-orientale del dipartimento del Var, per l'esattezza Roquebrune-sur-Argens. 
Con mio marito e mio figlio stiamo esplorando un'area abbastanza selvaggia, a nord della cittadina (un borgo medievale dominato da una roccia maestosa che dicono ricordi il profilo di una donna addormentata). 

 Lasciato alle spalle il villaggio e i vari "chemin des..."  ci inoltriamo per una campagna piuttosto selvatica, fatta di piste sterrate, ponticelli, cespugli e colline montagnose. Affascinante e antica.
Dopo una certa percorrenza ci fermiamo per ammirare meglio il grande massiccio a forma di donna. Mi fa pensare a Paul Cézanne, "La Montagne Sainte-Victoire au grand pin". 
Scendiamo tutti dall'auto che abbiamo parcheggiato leggermente in pendenza, proprio all'imbocco di un lunghissimo ponte, mio marito estrae la storica Reflex e si immerge nel suo hobby dedicandosi alla migliore inquadratura della montagna. Siamo a pochi chilometri dalla cittadina ma non c'è alcuna casa intorno. 
Prendo per mano mio figlio e mi avvio a percorrere il lungo ponte a piedi: sono una camminatrice appassionata e gioiosa.  
«Ti aspettiamo di là... » dico a mio marito che neanche mi sente, preso com'è dal reportage e aggiungo: «Vieni a prenderci con la macchina, quando hai finito». 
La brezza è quella leggera di settembre, gli spazi aperti hanno il profumo magico dei luoghi ancora incontaminati e il cielo è brillante. C'è un meraviglioso silenzio. Neppure un uccellino che cinguetta o che vola. 

Quando siamo quasi a metà del percorso rallento involontariamente, sento il petto stringersi senza motivo e, allarmata, guardo mio figlio di quattro anni che trotterella accanto a me. Mi volto indietro ma mio marito non si vede più, nascosto dal declivio e dal muretto del ponte. Starà cercando la migliore inquadratura. 
Osservo il limite opposto che dobbiamo ancora raggiungere, è molto lontano e non c'è nessuno laggiù, né un veicolo né un ciclista di passaggio. È totalmente deserto. 
Scuoto la testa: le mie solite preoccupazioni..

Riprendo a camminare e a parlare con il mio figlioletto eppure, dopo una decina di passi, ecco di nuovo quell'affannosa chiusura e una specie di peso sotto ai piedi, una forza potente che mi ferma esattamente lì. Mi impedisce di proseguire.
«Fèrmati... » dico a mio figlio e accampo una scusa: «è troppo lungo questo ponte, torniamo indietro». Con la spensieratezza dei bambini lui fa dietrofront incamminandosi contento in direzione dell'auto: il fiume in secca che c'è sotto di noi non ha grandi attrattive per lui.

Nel vedermi arrivare mio marito si stupisce: «Perché hai già mollato?» 
Gli rispondo vagamente: «Così... » senza dire altro.
Si attarda con le ultime inquadrature, ci fa notare alcuni particolari, ammiriamo i colori, i profumi, il silenzio. Poi decidiamo di risalire in auto e proseguire un po' alla cieca oltre il fiume in secca, per scoprire dove porterà questa strada, cosa ci sarà oltre quella macchia di cespugli o quello spuntone di roccia. 

L'auto impiega il tempo necessario a superare il ponte sopra l'alveo di sassi, poi notiamo la strada incurvarsi a gomito proprio verso l'uscita. Preparandoci alla curva rallentiamo l'andatura, quando improvvisamente qualcosa di indefinito ci salta addosso schiantandosi violentemente sul cofano, sopra il tetto dell'auto e cozzando pesantemente anche sul portellone dietro. La visuale si oscura in tutte le direzioni disorientandoci. 

L'auto sbanda e rallenta, solo allora riusciamo finalmente a capire: siamo accerchiati da un branco di animali di grossa taglia, molossi inselvatichiti e cani randagi alla deriva, non riusciamo neppure a percepire con esattezza quanti, perché piombano uno sull'altro da ogni lato, ma sono tanti, e altri ne arrivano ringhiando da ogni direzione lanciandosi sulle portiere, sul cofano e sul tetto della nostra auto in pochi secondi.
Io scatto protendendomi all'indietro verso mio figlio e lo vedo aggrappato al centro del sedile, con i finestrini miracolosamente chiusi. Mio marito pesta istintivamente sull'acceleratore facendo schizzare le bestie ai lati, ma loro proseguono ferocemente l'inseguimento ancora per due o trecento metri finché il maschio alpha arresta la sua corsa, cristallizzando immediatamente l'azione di tutto il branco. Dissolvendosi in un baleno, spariscono nel nulla come sono apparsi

Mi sento le gambe molli, porto le mani alla testa: «Come stai?» chiedo a mio figlio, cercando subito qualche battuta per sdrammatizzare. Le considerazioni ci escono libere: «Ma da dove saranno venuti? E se fosse passato un ciclista?»
Nessuno accenna al fatto che dovevamo esserci noi. Che mio marito non sarebbe riuscito ad arrivare in tempo. Che anche fosse stato vicino a noi non sarebbe riuscito a fermarli tutti. 
Un senso di terribile stupefatta incredulità ci prende.

Perché mi sono fermata? Mi chiedo. 
Perché non ho proseguito fino alla fine del ponte: chi mi ha impedito di farlo? 

C'è un tipo di intuizione che sfocia dal profondo e non possiamo definire, ma solo riconoscere. Ci fa agire controcorrente: non sappiamo perché, ma sentiamo di doverla assecondare. 
A volte ci sentiamo degli sciocchi a farlo - è superstizione - pensiamo, eppure stiamo interpretando dei segnali precisi, in quel momento il nostro "cervello antico" riesce a processare velocemente tutti i dati che i sensi ci stanno inviando. C'è un'istintivo e atavico segnale di allarme per il pericolo. È probabilmente inscritto come una tacca tra le informazioni genetiche nel nostro DNA. Oltrepassa il razionale.  
E a volte, se sappiamo ascoltare, ci salva.

domenica 25 gennaio 2015

NO LAVORO MI...


























No lavoro mi! Go tropo de fàr... 
Questo aveva detto un simpatico signore con ascendenza austroungarica ma naturalizzato triestino che ho conosciuto un anno fa, in occasione di un concorso letterario (che peraltro aveva vinto). Go tropo de fàr: mi era piaciuta tantissimo l'espressione territoriale. Infatti la concezione del fare è soggettiva. Vi capita mai di trovare qualcuno che vi saluta così: "Dove te ne vai a zonzo, a far niente?"
E tu in quello stesso momento hai la testa intasata di informazioni: una nuova trama per l'ultimo racconto, ritrovare dei contatti preziosi segnati chissà dove, pianificare un business-plan che faccia lavorare almeno quattro persone, compresa me.
Non è mica una cosa da niente la progettazione. Si possono fare delle attività manuali mentre si pianifica, ma non molte, la mente dev'essere sgombra, qui il multitasking c'entra come i cavoli.
Non puoi tagliare un tessuto prezioso, montare un armadio o aggiustare un motore rotto progettando contemporaneamente una startup, però puoi fare una doccia, lavare la macchina, camminare o aspirare il tappeto.

IL PENSIERO E' ENERGIA. 
LE AZIONI DISPERDONO ENERGIA. 
Questo mi è venuto in mente leggendo un articolo sull'energia delle stringhe cosmiche e le opinioni contrastanti di due fisici che dibattevano sulla possibilità o meno di viaggiare nel tempo.
Pensare, addentrarsi nell'immaginario è una attività meravigliosa che richiede comunque concentrazione e assenza di peso razionale (almeno all'inizio). All'opposto, le azioni del quotidiano sono continuamente sollecitate verso il basso, verso la sussistenza, il confronto, la competizione. Questo toglie moltissima energia al pensiero libero che, se ruba spazio all'azione, viene percepito come perdita di tempo e il soggetto stesso è definito svagato e dispersivo.
Eppure, il progredire della società si è manifestato attraverso questa forma di temporaneo estraniamento dalla realtà. Non c'è una sola conquista scientifica che non sia stata preceduta da una specie di contemplazione del mondo.
Nulla si è compiuto restando all'interno dei confini e delle regole.

giovedì 4 dicembre 2014

STICAZZI SPECIAL PRIZE



























Una collega mi posta il link di un contest: 
«Dai un'occhiata, se ti va».
Sono mille anni che non partecipo ai concorsi di grafica, però decido lo stesso di andare a vedere... non si sa mai. L'intestazione dice: "Iscrizione al Premio La Balordera - Crea l'Etichetta"
 
Primo dubbio: dal titolo non sembrerebbe un concorso promosso da una organizzazione no-profit, ma continuo a leggere sotto:
«Concorso per la realizzazione di un'etichetta per una linea di vino blablabla, ispirata al tema blablabla, che sarà presentata in occasione di Vinitaly blablabla, per Nutrire il Pianeta blablabla, e promossa in eventi esclusivi Expo 2015».
Ah, ecco, è una azienda che i profitti li fa.  
«Dettagli del premio». Bravi, entriamo nel dettaglio.
«All'artista vincitore verrà assegnato un premio in denaro di 5.000 euro» (beh, quasi un anno di stipendio ad date), «con il quale l'azienda La Balordera acquisisce la proprietà dell'opera e ogni diritto ad essa connesso di proprietà industriale, intellettuale, sfruttamento dell'immagine e blablabla»
 Continuo sotto.
«Allegare il materiale dopo l'avvenuta iscrizione». D'accordo.
«Form da compilare entro e non oltre il 4 dicembre 2014 previo pagamento della quota di iscrizione di € 50».
Rileggo, ma è scritto in rosso e in grassetto, non mi è sfuggito nulla. C'è proprio scritto 50. Cerco da qualche parte se la tassa di iscrizione abbia un senso, che so: "gestione dei file, stampa e montaggio su supporto rigido per esposizione" oppure "allestimento di esposizione collettiva degli elaborati", niente. Mi viene un dubbio. Sono ferma alle tasse di iscrizione di 10 euro o giù di lì, quando ancora i concorsi erano banditi dagli Enti pubblici con finalità socialmente rilevanti e si partecipava solo per fare curriculum. «Ma servono a coprire le spese della giuria» mi spiega la mia collega: «sono abbastanza dignitosi, in genere la partecipazione a questi eventi parte da 200/300 euro».  
Non riesco a trattenermi, comincio a ridere di gusto.

Nuntio vobis gaudium magnum!
Ecco il nuovo che avanza: il Contest del grafico kamikaze. 
Il committente studia un semplice sistema per fare promozione e farti lavorare gratis. Crea un evento, affianca il brand aziendale all'egida di un noto concorso d'arte che raccoglie in media ottomila partecipanti, stabilisce una tassa di iscrizione per coprire le spese di organizzazione offrendo un premio economico al vincitore e promettendogli visibilità all'Expo 2015.   
Esilarante, trattenetemi sto per sentirmi male. 

Ma da quando una azienda privata bandisce un concorso per farsi l'etichetta di vini? Non hanno trovato abbastanza Agenzie di comunicazione pronte ad occuparsi del loro stilismo aziendale? Forse desiderano ottenere il massimo della professionalità al minimo sindacale? O magari si tratta di eludere il vecchio e scomodo "compenso" dovuto al lavoro creativo?  

Facciamo due conti sugli effettivi vantaggi:

- Con  i primi 100 partecipanti l'azienda mandante recupera gli importi versati con la causale "spese organizzative" avendo così già pronta la quota del premio, insieme a cento progetti esecutivi gratuiti, senza scucire un centesimo. Il resto è grasso che cola.
- Ben che vada, si riserverà i criteri di scelta proclamando un vincitore. Pensiero standard degli esclusi di turno: «Amen, mi sono esercitato», «Era già tutto previsto», «Che ciofeca, mio nonno faceva meglio». 

- Mal che vada, uscirà un comunicato stampa col quale si avvisa che nessuna delle opere in gara è stata ritenuta valida ai fini del concorso, i lavori più interessanti finiranno in copia sulla scrivania del tipografo di fiducia come materiale di ispirazione per le etichette dei prossimi cinque anni.  
Sembra tutto regolare e infatti lo è, la presa per i fondelli è legalizzata.  

Ricevo varie proposte di incarico no-budget da parte di persone che mi credono talmente innamorata del mio lavoro da desiderare farlo gratis. Vista la comune tendenza di far passare lo sfruttamento dei talenti altrui come opportunità, riporto qui sotto due linee di condotta, specificando che alla parola "gratis" scatta in automatico il metodo sticazzi.

Risultato di una prestazione gratuita nella versione 

GRAFICO KAMIKAZE:
Fegato ingrossato, aumento della bile e dei consumi del toner (per le prove di stampa), pranzo e cena a base di crackers da mangiare davanti al monitor per rispettare i tempi di consegna "per ieri". 
Costo/ore lavorative, bonifico e spedizioni: a partire da 200 euro + spese di farmacia per Maalox.
Conto in banca: Rosso.

Risultato delle stesse ore impiegate nella versione 
GRAFICO STICAZZI:
Un'ora di passeggiata al parco, lettura della sezione Cultura davanti a un cappuccino e un croissant appena sfornato, corso gratuito di aggiornamento grafica 3D erogato dall'ente formativo cittadino, passaggio in biblioteca per recuperare "Hinagata-japaneseart", tappa dalla zia novantenne per saluto e commissioni, due ore di consulenza graphic/design a giovane studente (barattate con sostituzione dei tergicristalli), scrittura del racconto "Vinci il tuo stipendio" da pubblicare eBook per Kindle, e per chiudere preparazione di crema di zucca e bruschetta verace (con l'ultimo pomodoro raccolto nell'orto della zia).
Costo/ore lavorative: 0 euro + Incarnato alla Heidi dei boschi. 
Conto in banca: sempre Rosso, magenta 70% e yellow 30% 
C'è bisogno di gratuità?
...Carpe diem, quam minimum credula postero.